Non fermarsi neanche quando manca il fiato. Anzi, addirittura accelerare. Caterina Bellandi riesce a farlo e non solo grazie allo sprint del suo Taxi Milano 25, la sua marcia in più è la volontà. Dal 20 dicembre la Zia più famosa di Firenze fronteggia una malattia rara e le cure necessarie per tenerla sotto controllo. Un percorso lungo di ricovero, anche nella terapia intensiva dell’ospedale di Careggi, che ora continua al centro Don Gnocchi dove tre volte alla settimana fa riabilitazione.
Come sta Zia Caterina?
"E’ stata un’esperienza molto dura, difficile però bella perché mi ha avvicinato a tante persone, mi ha fatto vedere le cose da un altro punto di vista. Così sono viva per scelta”.
Lei è un simbolo di solidarietà per Firenze e oltre. Cosa si prova a trovarsi in prima persona in una situazione di difficoltà dovuta a una malattia rara?
"Non respiro, ancora non sto bene però sono qui e non voglio mollare. Per me è una grande responsabilità amare, e sentirsi amati da una città intera è veramente bello. E l’esempio per imparare a volersi bene ce lo danno i bambini. Io vorrei essere proprio come loro perché il loro desiderio è di essere amati per quello che sono e donare amore dovrebbe essere la normalità, per tutti”.
Si impegna molto per gli altri, anche qui al Don Gnocchi è diventata volontaria tesserata della Fondazione. Com’è nata questa sinergia?
"Questo è un luogo accogliente, dove mi hanno riconosciuta come essere umano con le paure e le difficoltà che questo percorso impone di affrontare. Un luogo di cura della persona e della malattia. Quando ero ricoverata dalla mia finestra vedevo i bimbi palestinesi che venivano a fare riabilitazione dal Meyer qui al Don Gnocchi. Mi sono chiesta come potessi entrare a far parte di questo spazio solidale ed eccomi qua: prima mi dedico alla riabilitazione che devo fare e poi mi trattengo e aspetto i piccoli per fare due chiacchiere e un po’ di compagnia. Non faccio certo le corse, non potrei. Al Don Gnocchi vivo un tempo nuovo, lento, forse anche di fragilità ma ho ancora tante cose da dire. E da cosa nasce cosa, dalla malattia nasce il volontariato, poi nasce una speranza, la voglia di condividere nuovi progetti. Per esempio domenica abbiamo celebrato insieme alle famiglie palestinesi il ramadan, un “happy ramadan”. Lo spirito è quello di stare insieme, di fare festa insieme”.
Il momento più buio di questo percorso?
"Quando esci dall’ospedale, sei solo. Non sei più ricoverato, ma sei sempre malato. E tutti ti vedono la mattina e dicono: “Che bello vederti!”, ma non basta la parola, serve fare qualcosa di concreto per l’altro”.
Aspettarsi, avvicinarsi: c’è un tempo per farlo anche in questa società che corre?
“Bisogna rallentare, i supereroi sono quelli che rallentano per aspettarti e continuare a camminare insieme e a condividere. E’ così che si arriva alla pace; certo è un processo lungo. Bisogna prima fare pace con noi stessi, con il nostro corpo, le nostre paure, comprendere i propri limiti, accettarsi e perdonarsi senza giudizi. Imparare a ragionare pensando per “noi” e non sempre “io, io, io”… Aspettare, osservare, comprendere e accettare gli altri senza correre. Queste sono le vere priorità del nostro tempo”.
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