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Maturità 2023: siamo davvero il voto che prendiamo?

Domani 21 giugno iniziano gli esami di maturità. Qualche giorno fa vi abbiamo chiesto se l’esame di maturità vi fa o, se lo avete già affrontato, vi ha fatto paura – e perché.

Vediamo alcune risposte: c’è chi ha paura di “andare in panico e non riuscire a fare niente”; 
chi ha “paura di non poter dare il massimo a causa dell’ansia e quindi di non dare il 100% ma la metà”; 
c’è chi ha paura all’orale di “non ricordare o sapere cosa dire”; 
chi ha paura del “voto”; 
chi era preoccupato per una materia in particolare perché “sapevo di non sapere”; 
chi ha paura dei “commissari esterni”; 
e ancora chi ha “paura di deludere le aspettative degli altri”.

Insomma, le risposte che ci avete mandato sono moltissime, ma possono essere tutte sintetizzate con questa:

(Ho troppa paura TROPPA)

Perché, in fondo, sì, possiamo raccontarcela come ci pare, ma tutti noi, prima della maturità, abbiamo invocato aiuto a qualche sorte, divinità o santo. Me compresa. Le domande più frequenti che io mi facevo in testa erano: e se prendo un voto basso? Se non rispondo bene a quella domanda? Se non ripasso le cose più importanti?

Calma, respiro profondo. La domanda più adatta da chiederci è… perché? Ripensandoci: perché a molti, moltissimi di noi, questo esame sembrava un ostacolo insuperabile – un boss finale impossibile da sconfiggere?

Sono 100 anni che l’esame di maturità incute timore negli studenti di tutta Italia. Però agli inizi si era messi decisamente peggio di adesso.
Partiamo dalle basi: l’esame di maturità viene istituito dal ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile nel 1923 – un anno dopo l’inizio del primo governo di Mussolini.

In quegli anni gli studenti dovevano affrontare 4 prove scritte e un orale. Il programma di studio comprendeva tutti gli anni di liceo – e non solo l’ultimo, come nella maturità attuale. I docenti erano tutti professori universitari esterni e la bocciatura era più la norma che l’eccezione.
Pensate che nei licei scientifici, nei primi anni, lo hanno superato solo il 54% degli studenti – nei classici il 59%. 
Praticamente poco più della metà – una strage. 
Sapete oggi in quanti passano? Degli ammessi all’esame, il 99,9%. 

Ecco, diciamo che prima la paura era un po’ più giustificata.

Va be’, insomma, dopo 100 anni di maturità è legittimo chiedersi “Ha ancora senso farla?”. 
Mettiamola così: è il primo grande esame accademico della nostra vita. E’ una sfida che mette alla prova il metodo di studio e la propria capacità, più di ricordarsi quella specifica data, di riuscire a collegare fatti e ricostruire visioni di insieme. 

Ma non è solo una sfida accademica: è anche più intima – e forse è questo quello che spaventa di più. Ci mette davanti ai nostri limiti, alle nostre insicurezze. C’è la paura forte di deludere famiglia e amici – magari perché pensiamo che stima e affetto da parte dei nostri cari siano un qualcosa da guadagnare attraverso successi accademici e sociali. 
E poi c’è anche la paura di fallire – magari perché pensiamo che prendere un voto basso definisca in qualche modo il nostro valore.

Ma soprattutto: l’esame di maturità è un’esperienza. E in quanto tale ogni generazione l’ha vissuta in modo diverso. Ad esempio oggi i social sono pieni di video dove si registrano le proprie sessioni di studio, si ripetono interi programmi per ripassare e si danno consigli su come affrontare scritti e orale. 

Diciamo che rispetto a prima la maturità si è trasformata in un’esperienza che va oltre la propria cerchia di amici e compagni –  perché alla fine l’importante, e chi ha già fatto la maturità può capirlo, è sapere di non essere soli nei momenti di ansia e difficoltà. 
Perché sì, purtroppo, con il tempo ci si dimentica di poesie, date, regole di matematica, armistizi, fronti di guerra – ma il fronte comune, virtuale o meno, che si è creato con tutti gli altri durante i giorni d’esame non si dimentica più.

Alla luce di ciò è importante tenere bello fisso in mente un pensiero: prima di qualsiasi altra cosa, l’esame di maturità è… un esame. Quindi la conclusione di un ciclo di studi e non una sentenza di quello che siamo o saremo. Perché quello sta solo a noi deciderlo, non a un voto in centesimi.

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