Roma, 1 apr. (askanews) – In Turchia continua la proteste delle donne contro il ritiro, da parte del governo del Presidente Recep Tayyip Erdogan, della firma dalla Convenzione internazionale per la prevenzione e il contrasto alla violenza di genere. Un accordo che proprio la Turchia aveva voluto e promosso, noto come convenzione di Istanbul, di cui fu prima firmataria nel 2011.
La decisione del governo ha scatenato l’indignazione internazionale ed è arrivata proprio mentre il numero di femminicidi e altri crimini contro le donne nel Paese è in aumento. E anche se Erdogan non ha motivato formalmente la sua decisione, un portavoce ha spiegato che alcuni riferimenti nel trattato sono volti a "normalizzare l omosessualità, cosa incompatibile con i valori sociali e familiari della Turchia", così che il ritiro della firma va anche a minare la tutela dei diritti della comunità Lgbt.
Il movimento delle donne ha trovato sostegno anche da parte di alcune più conservatrici e spesso al fianco di Erdogan e del suo partito di governo. "In realtà non ha senso dire che la Convenzione distrugga le famiglie. Noi diciamo al governo: se si preoccupa di proteggere la famiglia, è la violenza a distruggerla. E’ la violenza maschile che distrugge le famiglie. Una famiglia dove le donne vengono uccise non può esistere", sostiene Rumeysa Camdereli, dell’Associazione delle femministe musulmane Havle.
Mentre altre, come l’Associazione Donne e Democrazia (KADEM), la cui vicepresidente è la figlia minore di Erdogan, Sumeyye, sostengono che la Convenzione ha "perso la sua funzione originaria e si è trasformata solo in una ragione di tensioni sociali". "In questi ultimi giorni c’è questo dibattito: se la Convenzione di Istanbul viene cancellata non c’è modo o mezzo per le donne di essere protette dalla violenza in Turchia. No, non è così. E l’intero processo è ancora in corso per quanto riguarda l’attuazione" dice Deria Yanik, legale e membro dell’associazione.
Continueremo a lottare per i nostri diritti e la democrazia, promettono in molte. La battaglia va avanti anche attraverso legali e attivisti che hanno fatto appello al Consiglio di Stato per presentare una causa di annullamento del decreto presidenziale. Le speranze sono comunque poche.
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