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L’arte, noi e l’ignoto: palestra, negazione, opportunità, mito

Milano, 29 dic. (askanews) – Fondazione Prada ha pubblicato sui propri canali social il settimo visual essay del progetto Finite Rants, si tratta di "I’ve Seen This Before", del gruppo artistico Remember che guarda all’anonimato e allo sconosciuto e ricompone, nei dieci minuti del video, un senso di mistero urbano e umano, che lo spettatore, vero soggetto dell’atto culturale, è invitato a scrivere in qualche modo in prima persona.

Un concetto, quello del ruolo del soggetto chiamato a interpretare e anche a creare arte, che ritorna anche in un artista che in tutto e per tutto sembra stare agli antipodi dei Remember.

Nella sua prestigiosa MasterClass online Jeff Koons, una delle superstar del Sistema dell’arte globale, sostiene che l’arte non sia nei dipinti o nelle sculture, ma dentro di noi. E che nel museo le cose accadano, ma soprattutto a livello interiore. Perché i musei, ce lo ha ricordato anche Massimiliano Gioni, sono tutt’altro che luoghi neutri, bensì "palestre per farer i conti con l’ignoto".

Ignoto che ritorna anche negli occhi e nelle parole di Cate Blanchett, protagonista del film "Manifesto" di Julian Rosefeldt, che in una celebre scena declama la scomparsa di tutto e l’affermazione del "niente". Un niente che spesso il contemporaneo trasforma in qualcosa, in arte, in relazione e in comunità, oppure in un corpo, come quello della ballerina Chiara Bersani, capace di diventare un unicorno alla Biennale di Venezia.

Forse il mito dell’unicorno è l’immagine giusta per chiudere questo strampalato ragionamento visuale sul senso dell’ignoto, ma prima, perché i terreni devono sempre giocare a compromettersi, è importante ascoltare un altro colosso del Sistema dell’arte come Damien Hirst che su Instagram racconta la propria mostra antologica e qui assegna tre aggettivi proprio al mito: esplorato, spiegato, esploso.

Il suono delle parole di Hirst è di per sé parte di una mitologia che si costruisce mentre la si distrugge, mentre la si seziona, mentre la si cataloga in una sorta di breve storia dell’universo, come quella tentata da Camille Henrot in "Grosse Fatigue", uno di quelle opere video che non si smetterebbe mai di guardare. Un’esplosione che continuiamo a sentire, come diceva anche Koons, dentro di noi, dentro il nostro tentare di essere contemporanei.

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