Merano, 18 ott. (askanews) – L’importanza dell’arte per denunciare e opporsi alle discriminazioni, alle violenze e alle ingiustizie sociali e politiche. È una mostra intensa e impegnata quella che Kunst Meran Merano Arte ospita fino al 29 gennaio 2023: "Turning Pain Into Power", ossia come trasformare il dolore in forza. Il percorso si apre con Monica Boncivini e il suo manifesto per non tenere la bocca chiusa, un modo per dire fin da subito che chi tace, alla fine, è complice. Altri artisti importanti sono parte del progetto: Regina José Galindo, con una nuova opera sugli abusi sui corpi femminili, oppure Giuseppe Stampone con i suoi disegni a biro sulle azioni di dissenso. Fino ad arrivare alla riflessione sulla schiavitù.
"C’è un lavoro molto toccante di Paulo Nazareth – ha detto ad askanews la curatrice Judith Waldmann – un artista brasiliano con radici africane. C’è un monumento in Benin, che ricorda il luogo dove gli schiavi erano costretti a sostenere un rituale molto pesante prima di essere imbarcati per le Americhe. Dovevano girare intorno a un albero per dimenticare la propria identità. Paulo Nazareth è andato a cercare questo albero, che si chiama Oblivion Tree, e ha cercato di ripercorrere all’indietro questo percorso intorno all’albero più volte possibile in modo da lasciare ritornare più storie possibile di individualità persa".
La storia è anche al centro del lavoro di Philipp Gufler, che si concentra sulle discriminazioni nei confronti degli omosessuali, nel passato come oggi. "Io – ci ha detto l’artista – ho sempre cercato di guardare a queste figure da una prospettiva molto personale e mi sono sempre chiesto cosa potevo imparare da loro, perché io credo che ci dobbiamo preoccupare delle persone e delle storie del passato, se vogliamo prenderci cura delle persone del futuro".
Molto interessante anche la sala dedicata ad Adrian Piper, l’artista americana che ha scelto di andarsene dagli Stati Uniti e di cercare una nuova felicità a Berlino: nei suoi manifesti e nei suoi piccoli biglietti c’è tutto il senso di una ricerca che dal dolore si muove a occhi aperti, verso l’idea di un riscatto. Lo stesso che si può, forse con una certa sorpresa, trovare anche nelle storie di cinque donne trans messicane costrette nelle carceri maschili. "Un lavoro – ci ha spiegato la fotografa e artista Giulia Iacolutti – che spera di insinuare un dubbio nello spettatore su quale sia il vero carcere: se l’istituzione come la definiamo, oppure il corpo in cui nasciamo, se nasciamo in un corpo maschile, ma non ci rappresenta e interamente ci sentiamo rosa, o addirittura se è una questione di libertà della società: forse il nostro carcere è la società che discriminandoci ci porta a non sentirci liberi e libere. E questo ci mette in carcere".
Negli spazi intersecati di Kunst Meran le suggestioni della mostra si muovono e si sovrappongono, spesso ampliando le sensazioni. E la domanda che ritorna è su quanto la cultura può effettivamente fare. "Io penso – ci ha risposto Judith Waldmann – che l’arte possa cambiare qualcosa".
A partire magari dal nostro modo di pensare gli altri.
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