Venezia, 30 apr. (askanews) – Il 29 aprile si è celebrata la giornata mondiale della danza. Ma questa forma d’arte va pensata sempre, non solo in certe occasioni speciali. Così, il giorno dopo, torniano a uno degli spettacoli più belli della Biennale Danza 2021, aspettando quella del 2022.
Uno spettacolo emozionante, esposto, capace di unire cultura alta e bassa, danza e narrazione, in un’atmosfera di sospensione e ritualità che lo fa somigliare a una festa disperata e sincera. Marco D’Agostin ha portato in Biennale Danza il suo "Best Regards" che tra le altre cose vuole essere un omaggio al coreografo britannico Nigel Charnhock, scomparso nel 2012 e capace di dare un nuovo senso alla parola "intrattenimento".
"Quella energia strabordante che intratteneva lo spettatore, lo intratteneva, lo faceva ridere – ha detto D’Agostin ad askanews – era profondamente piena di dolore. Io non ho quella stessa energia, e, ad ogni modo, è come se ogni tentativo all’interno di Best Regards di intrattenere il pubblico con qualcosa di divertente fallisse, ma comunque mi piace l’idea di semantizzare la parola ‘intrattenimento’ dal punto di vista del tempo. Io mi occupo del tempo dello spettatore, di intrattenere lo spettatore all’interno di quel tempo e lo faccio con strategie diverse".
"Best Regards" è sia un racconto sia una struttura performativa che si muove tra Beckett e il mainstream, che a volte ricorda David Foster Wallace, che parla delle lettere che si scrivono, della difficoltà di stare sul palco e con se stessi. E la danza sembra essere una forma di protezione, ma anche di debito. Nel tentativo di stabilire quella che D’Agostin chiama una compromissione tra l’artista e il pubblico.
"A me – ha aggiunto il performer – interessa quando vedo un corpo muoversi o faccio muovere il mio corpo, che in qualche modo ci sia la cessione da parte della propria biografia e della propria postura sentimentale nei confronti del mondo e delle cose del mondo, ci sia la cessione di qualcosa, cioè che il gesto sia riempito di qualcosa con un livello di sé che non è necessariamente anatomico, ma che ha a che fare con i sentimenti, direi in ultima istanza, perché il sentimento possa muovere il corpo e per farlo occorre necessariamente cedere qualcosa".
La cessione, appunto, la perdita, ma anche degli strumenti per colmare queste distanze, andando oltre la malinconia assoluta del mainstream. Così, quando in sala pensiamo di essere già arrivati al climax emotivo dello spettacolo, arriva una lettera di Chiara Bersani, l’artista e ballerina che, anche senza la presenza fisica, ancora una volta è qui, in questo mondo unico che chiamiamo Biennale Danza. "Gentili persone, vi prego – scrive Chiara – entrate alla Tese solo se siete strabordanti d’amore. Altrimenti, per piacere, rimanete fuori".
A questo punto si capisce davvero che tutto lo spettacolo è un atto d’amore: per Charnhock, per gli spettatori, per un certo tipo di performance, per il palco… amore disperato per noi e per ogni cosa che si vorrebbe vedere illuminata. "Non abbiamo mai quel confortevole buio – scrive ancora la Bersani – che ci permette di guardare le stelle, di tornare a orientarci e respirare all’unisono, a coltivare nostalgia per le persone sparite. Ecco come ci siano perduti".
Siamo caduti anche noi nel buio, forse sì, forse era inevitabile, ma, adesso ci accorgiamo, è solo al buio, che possiamo alzare gli occhi e guardare le stelle. E, dietro le mascherine, alla fine, anche la sala si mette a cantare. "You are the Dark, I see the Stars".
Sì, è vero, adesso le vediamo.
(Leonardo Merlini)
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