Roma, 7 giu. (askanews) – Sessanta anni sul fronte dei diritti umani. Un fronte difficile e spesso scomodo. Amnesty International taglia il traguardo con un bilancio senz’altro positivo, con 50mila prigionieri di coscienza liberati e 12 milioni di attivisti che, in tutto il mondo, sostengono l’associazione fondata dall’avvocato inglese Peter Benenson il 28 maggio del 1961. Ma il lavoro da fare è ancora enorme. Askanews ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia.
"Sono stati 60 anni molto veloci perché ogni giorno è accaduto un fatto rilevante per i diritti umani, positivo o negativo. Dalle campagne storiche, quelle per i prigionieri di coscienza, per l’abolizione della pena di morte, per la fine della tortura fino ai nuovi temi. Quando negli anni ’90 quando Amnesty international ha deciso di occuparsi non della vulnerabilità transitoria di persone che magari erano in prigione, ma della vulnerabilità di sistema di interi gruppi, penso ai rifugiati, alle minoranze, ai popoli nativi, alle donne, al tema enorme dei diritti economici e sociali che sono tra i meno garantiti in assoluto, fino ad arrivare nel 2020 ad occuparci di quella che è stata una strage del diritto alla salute".
Un tema, quest’ultimo, che come spiega Noury è cruciale: "Nei prossimi anni il futuro del pianeta si gioca sull’aver appreso o meno le lezioni della Pandemia. Avere sistemi di prevenzione e di allarme efficaci, avere cure disponibili per tutte e per tutti, ovviamente sto parlando dei vaccini, di avere delle politiche economiche e sociali che non escludano, non dividano, non creino marginalità, non producano povertà non smantellino sistemi sociali fondamentali come i sistemi sanitari pubblici".
Dal 1961, sostiene Noury, i risultati raggiunti nella crescita della cultura dei diritti umani sono stati tanti: "Da un punto di vista giuridico, attraverso dei trattati internazionali che hanno coperto una quantità sempre maggiore di diritti ma anche dal punto di vista popolare, come sensibilità, come attenzione, come capacità di mobilitarsi per delle cause. Naturalmente il compito che Amnesty international si è data a proposito della cultura dei diritti umani è di iniziare da subito, nelle scuole, di educazione ai diritti umani. Resta il fatto che la leadership globale mostra di non essere all’altezza dei tempi. C’è un problema su tutti: il fatto che il Consiglio di sicurezza dell’Onu preveda ancora il diritto di veto per gli stati membri permanenti. E quindi quando l’organo che dovrebbe occuparsi di pace e sicurezza globali non solo non porta una soluzione ma porta un problema allora si capisce che siamo abbastanza lontani dal traguardo".
Guardando all’Italia, si pensi al G8 di Genova o al caso di Stefano Cucchi, il deficit di cultura dei diritti umani sembra chiamare in causa anche il nostro paese. Dal 2001, dai fatti tragici del G8 a Genova si è capito che c’era un problema grave di diritti anche in Italia. Negli ultimi 4-5 anni si è affermata una narrativa sempre più ostile che non è solo quella da utente dei social, ma spesso è diventata una narrativa politica, di istituzioni. Ostile nei confronti dei migranti, dei diritti in quanto tali. Una narrativa – e questo è l’errore grave – che porta avanti una tesi falsa: cioè che per avere più sicurezza occorra togliere diritti, che i diritti non ci sono per tutti, che i diritti bisogna conquistarseli comportandosi bene, e che se c’è qualcuno che è titolare dei diritti, quello è la persona autoctona e non quella che viene da fuori".
Per quanto riguarda il caso di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna rinchiuso in un carcere del Cairo perché impegnato sui diritti umani, Noury non usa mezzi termini: "L’incapacità del nostro governo di risolvere questa situazione nei rapporti bilaterali fa impressione. E’ evidente che la sorte di Zaki è nelle mani delle autorità giudiziarie egiziane, però se quella enorme mobilitazione dal basso che c’è stata in questi 16 mesi non corrisponde un’azione coerente, costante, pubblica e decisa da parte del governo italiano, la porta di quella cella è difficile che si apra da sola".
Secondo Noury, purtroppo, la realpolitik e le questioni economiche si scontrano spesso con il rispetto dei diritti umani: "L’esempio dell’Egitto è eclatante ma ci sono tanti altri esempi in cui una diversa leadership basata sulla promozione dei diritti umani avrebbe potuto fare la differenza e non lo ha fatto. Usciamo da un decennio, quello scorso, in cui c’è stata la guerra in Siria nella quale il mondo è stato a guardare se non peggio contribuendo con l’invio di armi. E questo è l’esempio più macroscopico sicuramente in questo secolo del fallimento della comunità internazionale in questo secolo nel trovare soluzioni per il rispetto dei diritti umani".
In occasione dei 60 anni di Amnesty international è stata lanciata una campagna di re-branding ed è stato prodotto un docufilm dal titolo "Candle in barbed wire", Candele nel filo spinato.