Torino, 9 lug. (askanews) – Il futuro è scomparso, diceva il critico culturale Mark Fisher qualche anno fa. Una considerazione che, al tempo delle crisi globali, diventa drammaticamente attuale, ma alla quale alcuni settori della cultura contemporanea più interessante e impegnata si continuano a opporre. È il caso, per esempio, di "Training for the Future: pretendiamo un milione di anni", nuova edizione del progetto dell’artista Jonas Staal, curato e co-programmato da Florian Malzacher nell’ambito del programma artistico ed educativo VERSO, della Fondazione Sandretto Re Rebaudegno di Torino con l’assessorato Politiche Giovanili della Regione Piemonte.
"Quello che abbiamo cercato di fare con il camp – ha spiegato Staal ad askanews – è stato costruire sulla memoria dei milioni di anni che abbiamo alle spalle, per ampliare le possibilità del tempo. Vogliamo altre migliaia, altri milioni di anni e per farlo dobbiamo espandere l’immaginazione per sentire davvero un tempo diverso, un futuro diverso".
"E’ ovviamente una provocazione – ha aggiunto l’artista – in un periodo storico nel quale ci troviamo ad avere meno futuro, a causa dei rischi di guerra nucleare, di crisi economica, con una classe politica che non riesce a vedere più in là di due generazioni".
Nel corso della tre giorni si sono affrontati temi filosofici, artistici, si è parlato di attivismo. Ma anche di presenze non-umane che hanno accompagnato le ricerche sull’ascolto profondo, la lentezza radicale, il presente inconscio, il tempo vegetale e la politica planetaria. Il tutto inserito nella cornice del programma VERSO. "Non solo educare – ha aggiunto Irene Calderoni, curatrice del museo torinese – perché spesso diciamo che il discorso educativo è legato al veicolare i linguaggi dell’arte, ma in questo caso abbiamo lavorato al contrario, chiedendoci quale fosse la mission educativa di un progetto come questo e usando gli strumenti che l’arte ci dà per riflettere sulle urgenze e le dinamiche del presente, mettendo al centro questa audience composta dalle nuove generazioni".
La teoria è sempre affascinante, ma nel camp si sono progettate anche azioni e pratiche artistiche. "Il modo in cui abbiamo provato ad allenare il tempo – ha aggiunto Staal – è stato filtrato attraverso diversi media. C’è lo storytelling, per raccontare il passato profondo in modo che diventi poi possibile ciò che il futuro profondo potrebbe essere; abbiamo provato a creare delle ‘seed bomb’, con le quali possiamo rigenerare le nostre città, le nostre comunità. E questo poi genera delle ‘time bomb’, perché quando tu lanci questi semi i loro effetti si vedranno più avanti, nel futuro. Quindi ci siamo mossi tra aspetti molto pratici e altri immaginativi".
Con la vivificante sensazione di trovarsi di fronte a progetti e istituzioni che non hanno paura di affrontare discorsi radicali. "Una radicalità come moto a luogo – ha concluso Irene Calderoni – non come qualcosa di dato e che si può acquisire da un giorno all’altro, ma come un andare verso una pratica che si rinnova. Io credo che questo sia anche il tentativo di ripensare quello che facciamo in una logica sempre più organica".
Una logica che ci aiuta anche a pensare in modi diversi a noi stessi, alla nostra vita nella società e all’importanza che l’arte e la cultura possono avere anche in contesti meno scontati.
(Leonardo Merlini)