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Roma, 12 gen. (askanews) – Mascherine e guanti di plastica in fondo al mare in cui restano intrappolati pesci, granchi, polipi; animali che li scambiano per cibo, come questi macachi immortalati a Kuala Lumpur, in Malesia, con i lacci delle mascherine in bocca. Rischiano di soffocarsi. E ancora lacci che si sono aggrovigliati e hanno bloccato per una settimana le zampe di un gabbiano in Gran Bretagna.
I dispositivi di protezione individuale, accessorio quotidiano indispensabile in tutto il mondo per proteggersi dal coronavirus si stanno rivelando sempre di più un pericolo mortale per la fauna marina e selvatica. Rifiuti indifferenziati smaltiti in modo errato, lasciati a terra, buttati dove capita e che possono essere letali. Materiali sottili ma che possono impiegare centinaia di anni per decomporsi.
L’impatto maggiore è in acqua. Secondo il gruppo ambientalista OceansAsia l’anno scorso oltre 1,5 miliardi di mascherine hanno inquinato gli oceani. Circa 6.200 le tonnellate in più di inquinamento marino da plastica.
Un problema che non riguarda solo gli animali marini più grandi, spiega George Leonard, a capo della Ong statunitense Ocean Conservancy: "Il problema è che l’intero ecosistema è a rischio, perché quando queste materie plastiche si rompono nell’ambiente formano particelle sempre più piccole e queste possono avere un impatto praticamente su tutta la rete alimentare, dagli animali più piccoli a quelli più grandi".
Associazioni e ambientalisti invitano a usare mascherine lavabili e riutilizzabili in tessuto o quantomeno a smaltire correttamente quelle monouso e a tagliare i lacci per fermarle dietro alle orecchie in modo da ridurre il più possibile i rischi per gli animali.