Scenario: spiaggia pubblica di Nizza, vicino alla Promenade des Anglais, il luogo in cui è ancora vivo il ricordo del tremendo attentato terroristico costato la vita a 85 persone. Seduta in spiaggia, una donna di religione musulmana stava cercando di asciugarsi al sole dopo essersi fatta un breve bagno in mare.
Vestita, la donna indossava una tunica turchese, dei leggings neri e e un tradizionale velo sui capelli. Nel giro di pochi minuti, quattro agenti della polizia municipale di Nizza l’hanno avvicinata e l’hanno multata, così come prevede la nuova ordinanza anti-burkini, anche se la donna il famigerato burkini proprio non lo stava indossando. Nelle immagini scattate da un fotografo trovatosi a passare di lì per caso, si vede la donna che inizia a spogliarsi, in spiaggia, davanti agli occhi curiosi di decine di bagnanti.
Il municipio di Nizza ha poi cercato di spiegare, in seguito alla polemica scoppiata a causa delle immagini scattate da un fotografo che si trovava a passare di lì per caso e che hanno fatto il giro del mondo in poche ore, che la donna si sarebbe spogliata di sua spontanea volontà per dimostrare di indossare un vero costume da bagno sotto le vesti reputate contrarie al buon costume dagli agenti francesi. La versione della trentaquattrenne al centro della vicenda che sta infiammando il dibattito avrebbe invece dichiarato di essersi vergognata e che i suoi figli hanno pianto vedendo quella scena. Infine, non essendo intenzionata a distendersi al sole coperta dal solo costume da bagno, ha dovuto lasciare la spiaggia di Nizza.
E così, ecco servita una delle prime vittime del divieto al burkini, il costume integrale islamico divenuto pietra dello scandalo in seguito all’ordinanza del sindaco di Cannes che ha deciso di metterlo al bando perché ritenuto un capo d’abbigliamento contrario ai “valori occidentali”. La vittima è stata mietuta, quindi. Mietuta nel più plateale dei modi possibili, pubblicamente umiliata.
La situazione è kafkiana: un’ordinanza vieta un capo d’abbigliamento tacciato d’essere un’imposizione liberticida destinata a donne musulmane che non possono decidere di vestirsi come più le aggrada, paradossalmente imponendo alle stesse donne musulmane un codice d’abbigliamento che non si sa quanto possa essere gradito a coloro che si trovano a doverlo rispettare. Imporre la libertà, ci sarebbe da ridere se non fosse realtà. Una vera e propria contraddizione di termini. Trovo sbagliato che tu vesta quel capo che io trovo liberticida, quindi te lo vieto e ti impongo il mio occidentale costume da bagno, arrivando non solo a multarti, ma perfino a umiliarti spogliandoti davanti a tutti e cacciandoti dalla mia spiaggia. Vien difficile considerarlo un atteggiamento liberale, soprattutto vien difficile pensare che un divieto calato dall’alto possa effettivamente produrre quello che questa legge si pone come obiettivo: l’integrazione tra culture differenti.
Come infatti spiegato da molte donne musulmane e dalla stessa stilista inventrice del burkini, il costume integrale è stato creato per permettere alle donne di poter prendere parte al consesso civile senza determinate limitazioni. Nella tradizione musulmana, infatti, è considerato normale evitare di scoprirsi in pubblico. Normale per le donne più osservanti, magari. Ma se una donna, cresciuta con determinati valori, reputa più consono andare al mare con il burkini o comunque coperta, chi siamo noi per impedirlo? Certo, si potrebbe sostenere che il burkini sia un’imposizione della gretta cultura maschilista islamica e che vada vietato per questo motivo.
Ma ne siamo davvero certi? E soprattutto, ma come può essere considerato sinonimo di apertura mentale e democrazia arrivare a imporre il modus vivendi che noi reputiamo essere il migliore tra quelli esistenti, arrivando a multare e a far spogliare una donna di fronte a tutta la spiaggia, contro la sua volontà?
E di fatti no, non è ammissibile un atteggiamento del genere, tanto che venerdì pomeriggio il Consiglio di Stato ha sospeso l’ordinanza anti-burkini accogliendo il ricorso di due associazioni francesi. Per ora la sentenza avrà effetto immediato solo sulla specifica ordinanza di Villeneuve-sur-Loubet, ma afferma un principio valido in tutto il territorio nazionale: questo tipo di divieto attenta alle libertà personali e di coscienza degli individui, pertanto non sono accettabili in una democrazia.