«L’alta pericolosità sismica della zona appenninica non è di certo un mistero», sottolinea Meletti. Se il sisma abbia riattivato altre faglie è «qualcosa che non possiamo sapere», aggiunge. «Con le nostre attuali conoscenze, infatti, non siamo in grado di valutare lo stato di una faglia. Sappiamo che prima di un terremoto si crea uno stato di tensione, ma noi ce ne accorgiamo solo quando la roccia si spacca perché non regge più alla deformazione. Attualmente, infatti, non c’è modo di misurare la tensione di una faglia. E né tanto meno di prevedere dove e quando ci sarà un terremoto».
Intervistata da Repubblica, la sismologa dell’Università di Harvard Marine Denolle sottolinea che la parola «previsione» nel campo della sismologia è ancora «tabù. Specialmente dopo quel che è avvenuto a L’Aquila». Ma qualcosa si sta muovendo, spiega, «California e Giappone sono diventati paesi guida nell’adozione dei sistemi di allerta rapida». Il «più efficiente» di questi sistemi, spiega, «è in Giappone. Ma è estremamente costoso. Ci vogliono numerosissimi sensori distribuiti per tutto il paese e algoritmi precisi per interpretare questi segnali e inviare i messaggi di allerta». Ma prima che tali sistemi «possano essere considerati sicuri e adottati dalle autorità pubbliche ci vogliono tantissimi test e validazioni. E se la scossa è vicina l’allarme può arrivare solo pochi secondi prima: utile solo fino a un certo punto».
La sismologa storica Emanuela Guidoboni, ex dirigente di ricerca dell’Ingv, intervistata dalla Stampa, dice: «Imitare il Giappone? Macché. Abbiamo una storia sismica e una cultura diversa, oltre agli elementi per renderci protagonisti di un percorso di consapevolezza da sviluppare tra i confini del nostro Paese. I borghi dell’Italia centrale rappresentano un valore aggiunto sul piano paesaggistico e non possono essere oggetto delle medesime azioni necessarie per le grandi città. Conservare e prevenire richiede progetti seri e una informazione diffusa per creare una consapevolezza del problema».
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