Alta moda: indagini del Tribunale di Milano sul caporalato negli stabilimenti cinesi

di solobuonumore

Alta moda: indagini del Tribunale di Milano sul caporalato negli stabilimenti cinesi

a cura di Olimpia Peroni

Queste sono le immagini dei capannoni a Milano dove i lavoratori cinesi producono gli accessori del brand Armani.

Macchinari senza dispositivi di sicurezza, materiali chimici e infiammabili lasciati incustoditi, dormitori e cucina sporchi, degradati, rimediati da ex locali della produzione.

E sfruttamento: paghe che arrivano fino a 2-3 euro l’ora. 

In seguito alle perquisizioni dei Carabinieri, il Tribunale di Milano ha commissariato la Giorgio Armani Operations. Chiariamo, però: né l’azienda né il suo fondatore sono indagati, si tratta solo di una misura preventiva.

Ma perché? 
In realtà, quello della Giorgio Armani Operations si tratterebbe di un caso di inerzia nei confronti di caporalato. Mi spiego meglio. 

L’azienda di moda ha affidato la produzione di accessori ad altre società che a loro volta hanno affidato la produzione agli stabilimenti cinesi.

Le condizioni dei lavoratori erano quelle di sfruttamento e all’interno dei capannoni sono state riscontrate gravi violazioni in materia di sicurezza, oltre che la presenza di dormitori abusivi dove gli operai venivano ospitati in ambienti insalubri. 

I carabinieri hanno chiuso i capannoni e accusato i titolari di reato di caporalato e commissariato la Giorgio Armani Operations. Una misura preventiva che si attiva quando si ritiene che l’azienda possa aver agevolato anche in modo colposo, quindi non volontario, l’attività di persone indagate per una serie di reati. In questo caso l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. 

L’azienda di alta moda ha rilasciato in nota stampa che “collaborerà con la massima trasparenza con gli organi competenti”. 

Ma non è finita qui: questo alle mie spalle è una rappresentazione semplificata fatta dai carabinieri del sistema produttivo, dove si può vedere come una borsa che un brand di alta moda vende a circa 1800 euro, lo stesso brand la acquista dalla società subappaltatrice autorizzata a 250 euro. Quest’ultima a sua volta, la paga 93 euro allo stabilimento cinese non autorizzato – cosa che avrebbe fatto per abbattere i costi da lavoro grazie al lavoro sfruttato e sottopagato. 

Secondo il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, questo non è un caso isolato. Già a gennaio era stato aperto un caso simile che coinvolge il brand Alviero Martini. Roia ha quindi ritenuto necessario iniziare un tavolo per discutere sul caporalato nel settore delle moda per cogliere in via preventiva “le criticità operative degli imprenditori” – soprattutto in vista dell’importanza economica di questo settore per il nostro Paese.

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